La testata giusta

Roberto Beccantini10 luglio 2018

Ha vinto la squadra più squadra, di misura ma con merito. La Francia è sempre stata dentro alla partita, il Belgio solo quando l’ha trascinato, a furor di dribbling, Hazard. Che poi il gol l’abbia siglato uno «stopper», Umtiti, su corner di Griezmann, è un episodio che non sposta i confini del giudizio. In questo Mondiale, i calci piazzati sono stati una risorsa, non solo dei numeri.

Deschamps ha proposto il suo classico 4-3-3 con Pogba e Matuidi ai fianchi di Kanté: tutti e tre sopra la media, il divario è cominciato lì. Più variabili, gli attacchi dei blu: gli strappi di Mbappé, le sponde di Giroud, i sentieri di Griezmann. E una difesa che, dopo la sbornia argentina, ha concesso agli orfani di Cavani e ai diavoli rossi il minimo sindacale.

Per la Francia, sarà la terza finale dopo il trionfo del 1998, con Deschamps capitano, e le zuccate berlinesi di Zidane nel 2006, la prima sventata da Buffon, la seconda «parata» da Materazzi. Nella mia griglia, l’avevo accreditata della terza piazza. La roulette russa le ha tolto di mezzo fior di Nazionali; il resto – e non era poco – l’ha costruito con calma, con talento.

E’ una squadra multietnica, giovane e maliziosa, che alterna lo champagne dei triangoli alla minerale di chiusure efficaci. C’era una volta la cicala che pettinava la «grandeur» a uno specchio che, spesso, le scappava (o le rubavano) di mano. Au revoir.

Il Belgio si è aggrappato ai muscoli di Fellaini e Chadli, che però hanno trovato pane per i loro corpo a corpo. Dembélé ha vagato senza un indirizzo sicuro. Lukaku elemosinava munizioni, Hazard ci ha provato con tutti, e da tutte la parti.

Lloris e Courtois si sono confermati portieri all’altezza. Ripeto: ha deciso, come a Berlino, un colpo di testa. Questa volta, però, al momento giusto e nel posto giusto.

Dalla Russia con rigore

Roberto Beccantini7 luglio 2018

Una notte in cui avevo bevuto o forse no scrissi che per vincere un Mondiale bastano quattro pareggi e una buona mira dal dischetto. Croati e russi mi hanno preso alla lettera. I croati, freddando i danesi. I russi, crivellando gli spagnoli. Poi, nella lotteria «one to one», avanti Dalic e a casa Cherchesov.

E’ stata una guerra che ognuno ha combattuto con le sue armi. La Croazia, gonfiando il petto (di Modric, soprattutto), ma concludendo poco e tirando male. La Russia, rimbalzando tra barricate e baionette. Dalle quali era riuscita comunque a estrarre una gemma: il gol di Cheryshev. Propiziato da Mandzukic, il pareggio di Kramaric era un dettaglio di cronaca che coincideva con un piccolo atto di giustizia.

A Sochi non si va al circo. Al massimo, in un’arena aperta ai cozzi gladiatori di questo calcio che ha abbassato il tetto e alzato la base. Cercavo Golovin, ho trovato un’ombra: che mi sia sbagliato? Il palo di Perisic era un brivido, raro, di un braccio di ferro ormai logoro. E se la zuccata rimbalzante di Vida sembrava un risarcimento congruo, la testata del «brasiliano» Fernandes, che poi avrebbe sbagliato uno dei penalty, riportava i pugili, suonati, al centro del ring e dell’equilibrio.

Difficile giocar bene contro i russi. Più facile tener palla: anche perché sono loro a rifiiutarla. La Croazia non era stata brillante neppure con la Danimaraca, e ancora una volta l’ultimo rigore l’ha tirato Rakitic. Alla fine, mentre l’armata di Ignashevich schiumava di desiderio, i croati contavano i feriti, Vrsaljko (sostituito), Mandzukic, perfino Subasic.

Attraverso sentieri molto contorti, la sfida ha esaltato il talento geometrico di Modric, emerso da un primo tempo un po’ così e più a suo agio con Brozovic in mediana. Non è una novità: e proprio questo è il suo pregio.

Il circolo Pickford

Roberto Beccantini7 luglio 2018

Un po’ Beatles e un po’ cambio della guardia, l’Inghilterra si iscrive ufficialmente alla riffa di un mondo che ha licenziato il Sud America. I leoncini di Southgate si sono facilmente sbarazzati di quella Svezia che gli italiani spiavano dal buco della serratura dell’invidia e della rabbia, fin qui molto Ikea, molto pratica, molto adattabile all’avversario.

Altra pasta, gli inglesi. Hanno deciso le teste di Maguire e Dele Alli, un traliccio e una trottola, ma dal momento che il calcio sale e scende dalle montagne russe il migliore è stato il portiere, Jordan Pickford, autore di tre grandi parate. Non Kane, in una gara quasi mai sfuggita ai radar di Henderson; non Sterling, la cui velocità crea problemi ai rivali e talvolta a se stesso (due palle-gol divorate); e neppure Lingard, prezioso negli strappi e negli assist (quello ad Alli). Il portiere. Già fondamentale contro i colombiani. Molti l’hanno pagato. L’Inghilterra, per ora, lo fa pagare.

Il circolo Pickford è una buona squadra normale, là dove il termine «normale» dovete prenderlo come un inno, non come un rutto. E normalissimo è il suo allenatore, Southgate. Tanto normale da scegliere la difesa a tre, modulo che da Coverciano a Fusignano considerano obsoleto, non in linea con i tempi, ancorato a visione giurassiche, eccetera eccetera.

Mancano due partite al titolo e molto è possibile. Coming home o non coming home, ci sarà pure la Perfida. Escono, gli svedesi, con l’onore delle armi. Mi ha deluso Forsberg: avevo letto dotti trattati sui suoi «poteri», qualcuno potrebbe indicarmeli?

Kane, il capitano, ha giocato da gregario, ma capace anche così di far massa, di far paura. Young, Stones e Trippier hanno toccato un traguardo che sfuggì a Beckham e Rooney, a Lampard e Gerrard. Non è un paradosso. Non è un risarcimento. «E’».